Ciao Aldo Agroppi, sempre in direzione ostinata e contraria

Frustate e qualche carezza. Potrebbe essere questo l’epitaffio perfetto per ricordare Aldo Agroppi, uno che, nonostante le umili origini, con le parole ci sapeva anche giocare, grazie a una vis polemica paradigmatica del suo carattere e del suo essere, uomo di calcio e toscano, in una miscela inscindibile e incendiaria. Polemista quando ancora i polemisti dovevano nascere, antijuventino quando ancora non era una professione ben remunerata, mediano nell’anima prima che in campo, sicuramente coerente, almeno per ciò che si può raccontare.

Piombino, la sua città natale, Ternana, Potenza, Torino e Perugia le squadre con cui ha giocato. Pescara, Pisa, Perugia, Padova, Fiorentina, Como e Ascoli quelle che ha allenato, alcune più volte. Nel suo palmares c’è un Torneo di Viareggio con il Genoa, senza mai esordire in prima squadra, e due coppe Italia con il Torino, una nel 1968 e l’altra nel 1971, il club con il quale è diventato l’Aldo Agroppi che poi abbiamo imparato a conoscere: entrato al Filadelfia tifoso della Juventus, grazie a Omar Sivori, e uscito da quelle pareti ‘Vecchio Cuore Granata’, come recita il verbo torinista. Tra il 1972 e il 1973 ha vestito per 5 volte la maglia della Nazionale.

Contro il palazzo, pagando di tasca propria

Una carriera non banale che, come per altri personaggi borderline, rischia, nel ricordo, di essere seppellita dalle polemiche, in difesa della trasparenza – dal suo punto di vista – e di un certo tipo di calcio che non esiste più da tempo. Per chi ha collezionato diecimila vinili sembrerebbe perfetto il brano “Non, je ne regrette rien” di Édith Piaf, peccato che proprio in occasione dei suoi ottant’anni abbia voluto ricredersi sugli arbitri, scusandosi per averli attaccati a più riprese e considerandoli, alla fine, l’unica categoria che tiene in piedi il calcio, circondati da giocatori viziati e strapagati. Una ‘caduta di stile’ per chi è sempre stato troppo intelligente per non capire che gli attacchi di un tempo andavano ad ammorbare un ambiente già fin troppo teso, dove quei cazzotti metaforici, mai dati a caso e ben assestati, colpivano con forza i diretti interessati. Di contro, va detto che ha sempre pagato in prima persona idee e parole. Per intenderci bene: mentre Maurizio Sarri nel ‘Palazzo’ ci è poi entrato dalla porta principale, Agroppi lo ha sempre preso a cannonate.

L’amore-odio con Firenze

Con Firenze e la Fiorentina, la città e la squadra di quella Toscana tanto rappresentata nel suo vivere e parlare, ha avuto un rapporto di amore e odio: dalla feroce aggressione da parte di alcuni teppisti mascherati da tifosi viola – che lo consideravano responsabile dell’esclusione di Antognoni – nella sua prima esperienza sulla panchina gigliata, nella stagione 1985-86, al disastro nel 1992-93, quando prende la guida del club dopo l’esonero di Gigi Radice – con la Fiorentina seconda in classifica – e lo porta sull’orlo della retrocessione, certificata da Chiarugi e Antognoni in chiusura di campionato. Eppure questa enorme distanza tra fatti e parole non gli ha poi impedito di diventare l’opinionista richiesto e temuto di storiche trasmissioni, radiofoniche e televisive.

Il Cyrano de Bergerac del calcio italiano

«Io credo di essere sempre stato una persona responsabile e seria. Cioè: vado avanti per la mia strada, lavorando e, quando ho lasciato, l’ho fatto per una questione morale e di correttezza. Oggi viviamo in un mondo dove tutti stanno aggrappati alle loro poltrone e io, invece, quando mi accorgo di essere di danno, tolgo il disturbo pagando di persona sotto ogni profilo e non soltanto quello economico», ha dichiarato Agroppi in una delle tante interviste rilasciate. Con quel tipico vezzo tutto toscano di non saper tacere e prendendosi più volte il gusto di dare la stoccata finale che faceva arrabbiare i bersagli dei suoi strali, alcuno escluso. Confondendo, a volte, il livore per questioni di campo e di contratto del passato per battaglie del presente e vestendo i panni del Cyrano de Bergerac del calcio italiano, al grido «In fin della licenza io tocco», con quell’inconfondibile ghigno che mandava fuori di testa gli avversari che marcava ruvidamente in campo.

I valori e quel minuto ‘rimangiato’

Il resto? Una vita difficile, segnata dalla povertà, dalla morte del fratello e dalla separazione dei genitori. Però è proprio in quelle radici che ha trovato la forza di creare una famiglia solida e impermeabile a tutto quello che succedeva, in campo prima e in televisione dopo. Quasi sessant’anni insieme alla moglie Nadia, per la quale ha sempre speso parole dolci, due figli, Nilio e Barbara, e gli amatissimi nipoti ai quali scriveva delle lettere: «… perché il bene che penso di loro sopravviva nelle loro teste». Un atto d’amore assoluto per un uomo considerato ruvido e spigoloso, al quale non resta che dedicare la sua canzone preferita: “Guarda che luna / Guarda che mare / Da questa notte senza te dovrò restare / Folle d’amore / Vorrei morire / Mentre la luna di lassù mi sta a guardare / Resta soltanto / Tutto il rimpianto / Perché ho peccato nel desiderarti tanto / Ora son solo a ricordare / E vorrei poterti dire / Guarda che luna / Guarda che mare”.

Quello della sua Piombino, che lo ha salutato nella sala del commiato della Pubblica assistenza. Per commemorarlo, a partire dalle semifinali di Supercoppa italiana e per tutte le partite del weekend – compresi anticipi e posticipi –, la Figc aveva previsto un minuto di silenzio, annullando poi quello per il torneo che si sta giocando a Riyadh, per paura di generare un altro episodio sgradevole come accaduto lo scorso anno con Gigi Riva. Chissà cosa avrebbe detto Agroppi, lui che in silenzio non ci sapeva stare.

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